Musica orientaleggiante di sottofondo (video a destra), ex rugbista, estrema spontaneità, tatoo – opera del suo secondo padre Tom Downs, dei suoi amici Paolo Alfonsi e Chiara Sorolli di Nina Tatoo e Marla Singer di Moko Tatoo – e tanto street food. Questo in breve l’identikit di Rubio (Gabriele Rubini), lo chef fuori dal coro. Lo abbiamo intervistato per capire se e quanto design (non) ci fosse nella cucina on the road. Ma, come spesso accade parlando con personaggi di grande curiosità e intraprendenza, siamo finiti a parlare della sostanza vera del cibo e della sua funzione sociale. Per chi non lo sapesse, Chef Rubio si è affermato sul piccolo schermo grazie al format ‘Unti e Bisunti’, serie dedicata allo street-food in onda per la prima volta nel giugno 2013 su DMAX (canale 52 del digitale terrestre). Grazie a questo programma, e nel giro di pochissimo tempo, Rubio s’impone all’attenzione del grande pubblico rompendo tutti gli schemi: basta con i programmi che hanno come protagonisti i cuochi stellati ‘abbottonati’. Lo chef/rugbista – la sua ultima esperienza sportiva è con la Lazio Rugby – gira l’Italia alla scoperta dei sapori e delle tradizioni gastronomiche locali, per poi sfidare un ristoratore del posto sul suo piatto tipico. Leggete l’intervista ascoltando la playlist orientaleggiante che fa da sottofondo ai suoi programmi.

Chef, che cosa significa per te design?

Il design per me è anzitutto progettazione, semplificazione e logistica. Il tutto accompagnato da un’estetica accattivante. Amo che il cibo lo si lasci al centro della scena, intonso quanto più possibile, o al massimo che lo si valorizzi per la sua forma originale. Il design deve essere una presenza discreta, di supporto.

Nello street food, design significa anche packaging…

Per quanto riguarda il packaging, o più in generale il modo di servire il cibo, quando lavoro voglio fare in modo che esso arrivi alla bocca nel modo più semplice possibile. Obiettivo numero uno: senza destrutturarlo o ancora peggio distruggerlo. Spero che in futuro ci sia più collaborazione tra cuochi e designer, cuochi e dottori, cuochi e tutti gli altri. Alla fine il cibo è vita e tutti abbiamo a che fare col cibo. Dalla collaborazione tutti ne gioverebbero e si potrebbero fare tantissime cose che ci renderebbero la vita migliore.

Qual è la responsabilità del designer nel rapporto col cibo?

Bisognerebbe lavorare di più sul grande pubblico. La difficoltà del design è di essere comunicato anche al consumatore meno vicino a queste espressioni d’arte. Il grande pubblico vede un pack innovativo, strano, e ancor prima di valutarne l’effettiva efficacia, pensa ad un ennesimo guizzo creativo senza senso. Lo vede quasi come una minaccia. Bisognerebbe comunicare il design in maniera più profonda, perché di utile c’è tanto, e coinvolgere anche le persone comuni.

Quando il design è utile?

Il design, se impiegato con raziocinio, è utile. Basta pensare dall’ambito degli aiuti umanitari. Pensate ad esempio alla rivoluzione che si innescherebbe se si potesse servire in modo pratico, a distanza, magari tramite un aereo, una pietanza che non fosse solo riso bianco o dolci sotto vuoto. Il mezzo per poterlo fare dovrebbe essere un packaging innovativo, tecnologico, a buon mercato. Di design appunto.

Funzionalità in primis… Ma poi?

Certo, poi c’è il design che ti fa sorridere… quelle cose che non sono necessarie ma che suonano come una genialata. Ma per quanto riguarda il food, invece, non si può scherzare. Deve essere anzitutto funzionalità perché si tratta di qualcosa che fa sopravvivere un essere umano, che lo fa stare meglio. Sul food mi piacerebbe che ci si divertisse, e tanto, ma pensando sempre alla funzionalità.

Nello street food, quanto studio c’è dietro al packaging?

Lo studio sul packaging c’è da quando sono stati concepiti i primi alimenti trasportabili. Prima di tutto funzionalità: per non scottarsi, per non sporcarsi, per mangiare camminando, per condividere. Per me c’è stato tanto come intuizione iniziale, poi nel corso degli anni abbiamo assistito a delle evoluzioni (o involuzioni) della situazione sociale, che hanno portato i desiger a correre ai ripari. Il design è per definizione legato al progresso e deve rispondere alle esigenze del momento storico.

Ci fai qualche esempio?

Pensate al terremoto dell’Aquila, nelle tendopoli. La soluzione alla mancanza di cucine vere e proprie è stati gli arrosticini sul canaletto. Quello che prima era un semplice pezzo forte della cucina abruzzese è ora diventato una esigenza disperata. Il concetto è un po’ come quello della griglia, alimentata senza gas, ma essendo concavo, permette allo spiedino di cuocere senza appoggiare alla superficie. Dopo il terremoto, questi strumenti sono diventati molto popolari perché sono un valido sostituto ai fornelli. Li il design si è ingegnato e le persone si sono arrabattate per realizzarmi in ogni formato. Grazie al design quindi, nonostante il disastro, si è riusciti a trovare una soluzione. Altri esempi di evoluzione negli strumenti a contatto col cibo sono state le scatoline dei ristò cinesi o del tailandese, che originariamente erano a coperchio sopra e sotto, ora invece si sono evolute, trasformandosi in cestini con linguette ad incastro che preservano umidità e calore, impedendo anche al cibo di fuoriuscire. A volte da una intuizione del genere si può risolvere un problema e rendere più fruibile un prodotto, facendo quindi circolare più la cultura del cibo.

Com’è la tua casa?

Viaggio moltissimo, quindi non ho una vera e propria casa. Prima vivevo in un lavatoio condonato, all’insegna del minimal: materasso per terra, molta luce, legno e vetro. Amo le case nordiche e senza fronzoli.

E se non fossi uno chef?

mi piacerebbe approfondire la materia della fotografia e del video making. Mi piace analizzare quello che vedo e renderlo disponibile per qualcuno. Pensate a quegli amici che non possono viaggiare…

Un oggetto cult (ascolta nel video a lato)?

Le bacchette. Ho una perversione, sin da piccolo, anche quando ero a casa con i miei le usavo per mangiare. Le prendevo dal ‘china’. Le ho sempre trovate più funzionali della forchetta per prendere i pezzi piccoli, come verdure e frutta. I cibi più piccoli sono più facilmente catturabili dalle bacchette, che ti permettono di prenderti tutto il tempo necessario per assaporare qualsiasi cosa. E’ un mangiare più delicato e meno vorace. I miei mi trattavano come se fossi un matto, ma sono una cosa alla quale sono molto legato e che collezionavo. Penso assicurino la giusta distanza tra la bocca e il cibo. Se c’è una cosa che il cuoco ha voluto presentare così, a volte sarebbe bello farla arrivare in bocca con quella forma, senza distruggerla. Lo trovo un utensile elegante.

Marco Magalini & Chef Rubio speaking

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