500 milioni di follower hanno seguito e commentato la sfilata del 21 giugno scorso di Louis Vuitton per il debutto di Pharrell Williams alla direzione creativa del brand. Quando la moda non indica più la strada da seguire per diventare un modo di discriminazione sociale, un vortice senza via d’uscita. “Non ho frequentato la Central Saint Martin, ma nemmeno la Juilliard per la musica e abbiamo visto com’è andata a finire. È ok. È un’osservazione corretta. E nemmeno Vivienne Westwood giusto? Tadao Ando era un autodidatta. Voglio dire lui è il più grande di tutti i tempi, no? Io miro solo ad esprimere me stesso” ha commentato Pharrell Williams. In effetti come diceva Cate Blanchett in Manifesto, film del 2015 di Julian Rosefeldt…”nothing is original”, non vale la pena sforzarsi di essere originali quando tutto è un rimando a qualcosa già esistito precedentemente e da cui traiamo ispirazione. Il furto semmai va celebrato e portato in altro territorio così da appropriarcene. Un pensiero già proprio dei Dadaisti e poi dei Futuristi, che si passavano la stessa opera di mano in mano contraddicendo il diritto d’autore e considerando la proprietà intellettuale un cliché da superare. Un valore quello della firma, fondamentale nella moda che crea non solo autenticità ma soprattutto brand identity; l’azienda nasce col nome e cognome dello stilista, con la sua storia personale, la sua cultura, la sua competenza. Il segno d’autore diventava dunque una ricerca ossessiva e imprinting per la produzione sia essa di prêt-à-porter sia quella più elitaria di couture. E che dire invece dei 500 milioni di follower che hanno seguito e commentato il Louis Vuitton fashion show il 21 giugno scorso per il debutto di Pharrell Williams alla direzione creativa del brand? Uno show nello show tra celebrity e Gospel singers, Voices of fire, con una performance straordinaria. La sfilata mediaticamente più vista in assoluto. Non si poteva rimanere indifferenti a tutto questo sforzo colossale che faceva crescere in modo esponenziale la brand awareness. E con questa il valore dell’oggetto esposto, abito o accessorio non importa, ma lì in quel momento, testimone di tanto eccitamento corale nel suo innegabile spettacolismo. Ricreare un senso di esclusività con item al limite del kitsch, come scriveva Gillo Dorfles, maliziosi nella loro ostentazione di ricchezza, al limite (superato) del buon gusto, e antitetici ai pentimenti post covid che auspicavano una moda più equa, consapevole, inclusiva. Ci aveva già pensato Gucci con i Gucci Saloon, a fare marcia indietro per ripigliarsi quel senso di lusso ormai perduto tra monogram (cappellini, cinture e bandoliere) dopo l’apertura ad un mercato più popolare. La moda richiede desiderio e con esso emulazione del vertice elitario di una piramide che sgocciola trend già vecchi in partenza. Un mercato che, per dirla alla Bauman, genera insoddisfazione all’acquisto di beni dalla durata limitata e quel senso di inadeguatezza e di non appartenenza. Ricreare una comunità nella quale non ci riconosciamo pienamente e nel cui ambito si sviluppa quella smania di primeggiare sugli altri, di essere unici, imitati, invidiati. Un evidenziatore del nostro status di disponibilità economica in un mondo regolato da finanza e denaro, in cui l’immagine parla di allontanamento, esclusione, isolamento, successo e con esso tutto ciò che di buono e cattivo ne comporta. Gli sforzi vani di riportare ad una considerazione più umana ed etica, a comportamenti più compassionevoli ed empatici, si scontrano con una gestualità altera, con sguardi indifferenti, con un incedere veloce e scostante, disattento a ciò che accade intorno. Con occhiali che celano il volto, che non lasciano comunicare alcuna espressione, che dividono, separano noi dagli “altri”. Tutto ciò è un considerevole balzo indietro, una contraddizione inaccettabile in un periodo di guerre e disastri ambientali, in cui ci preoccupiamo di apparire e di funzionare anziché di vivere. Continuiamo imperterriti ad allevare, uccidere, inquinare, sicuri che la bellezza ci salverà senza la minima nozione di cosa sia ora un valore, un rapporto, una visione del futuro. Ecco perché la moda non indica più la strada da seguire, tesa alla tutela dei fatturati in crescita, a gruppi smaniosi di egemonia, di monopolio, di vittoria. La moda scruta, spia le nostre vite, complice di una tecnologia al servizio della manipolazione delle masse, estendendosi ben al di là delle proprie funzioni, per diventare infine un modo di discriminazione sociale, un vortice senza via d’uscita. Alessandro Turci speaking