Cosa c’è dietro al balletto delle nomine degli art director moda secondo Alessandro Turci L’abito, la collezione, la linea, ormai c’entrano poco o niente con la Moda. Soprattutto per il turn over dei grandi gruppi focalizzati sul business e sul marketing. Una flessione nelle vendite, seppur modesta, diventa uno scricchiolio premonitore di un più severo default futuro. E quindi i manager del settore cambiano direttore creativo pensando così di risolvere in tempo record l’impasse e risollevare le vendite. In realtà, il direttore creativo, alter ego 4.0 dello stilista fashion designer fondatore del brand di ormai antica memoria, porta con sé il bagaglio della sua esperienza, consumata già in altre sedi. Come infatti afferma Alessandro Michele, ora direttore creativo di Valentino e precedentemente in Gucci (dove la sua visione triplicò il fatturato), questo sono io, questa la mia sensibilità che non posso snaturare. Ecco il perché forse del fatto che in alcune maison di moda certi nomi funzionano e in altre floppano clamorosamente. Un tempo il creatore-fondatore restava saldo sulle sue posizioni, determinandone la rotta e la prospettiva, tanto più ferme e coerenti quanto di successo. Ora, sotto ogni forma, è l’assortimento e non la qualità a stimolare l’acquisto. Resta comunque al limite del grottesco questo giro di nomi (sempre gli stessi) che dovrebbe assicurare un rimpasto risanante e lungimirante ma nella maggioranza dei casi inutile. Ad ogni nuova direzione, che ricordiamo affianca nuovo CEO a nuovo CD (le strategie sono al di là della cifra stilistica), appaiono sempre le stesse incognite di mercato, di gradimento della critica. Ma come può ci chiediamo, cambiare così tanto visione un Creative Director da andar bene sia da Balenciaga che da Gucci, da Loewe o da Christian Dior, da Bottega Veneta o da Chanel? Eppure, proprio come in quest’ultimo caso, si nota molto l’assenza di una mano autorevole che ne diriga i lavori! Ed inoltre, visti gli sconvolgimenti politici causati dalla nuova era Trump, quali saranno i personaggi che i grandi gruppi coinvolti anche loro malgrado nella scacchiera geopolitica, sceglieranno come immagine di collezioni prestigiose? Filo russi, filo americani, politically correct, georgiano, italiano, nero, donna, uomo, transgender? Ancora una volta è il potere, soprattutto quello economico, a dettare le priorità. Ciò che va di moda è l’attenzione mediatica generata dalla comunicazione e dall’imprevedibilità di gusti e ossessioni. Se in altre epoche era la star del cinema o del bel canto a focalizzare l’attenzione su una certa maison di alta moda esaltandone così l’esclusività del mito irraggiungibile – Christian Dior, Cristobal Balenciaga, Biki, Sorelle Fontana, Ferragamo…, ora basta un meme virale di un tik toker qualunque a cambiare lo sguardo. La visione creativa autentica, lentamente ha ceduto il passo alla democratica voglia di leggerezza e libertà , spesso contraddittoria e futile, dei social. Velocità di proposta e di consumo, velocità di reazione e di soluzione. I brand perdono il loro carattere storico in funzione di una modernità di prodotto decretata dal fenomeno comunicativo che intorno a questo si è sviluppato. Il post pandemico ci ha rivelato la debolezza delle figure un tempo fondamentali degli art director. Riassegnazioni ad uso e consumo di un business sempre più mediaticamente invasivo, che si serve di volti e personalità umane per il “mercato delle intenzioni”. Le intelligenze artificiali di ultima generazione saranno presto in grado di influenzare le nostre decisioni, un mercato in cui i desideri verranno identificati e venduti ancor prima che siano realizzati. Tecnologie avanzate come i LLM (modelli di linguaggio di grandi dimensioni) e i chatbot antropomorfi. Tali strumenti “umanizzati” nei loro processi, creano un rapporto di fiducia con gli utenti, da cui trarre informazioni utili nella previsione e manipolazione delle loro scelte. Questo avverrà anche in altri settori, come la politica. Le collezioni tuttavia mostrano una persistente attitude nostalgica che nulla ha a che vedere con la percezione di uno spiraglio alternativo. Ricordiamo in tal senso il monito lanciato proprio da Demna Gvasalia di un “imminent crash” del sistema finanziario (ed ovviamente anche di quello Moda) in occasione della presentazione della Balenciaga resort 2023 nei locali dello stock exchange di Wall Street in NYC. Se il riferimento dev’essere un diverso stile di vita che produce altrettanto diverse esigenze nell’abbigliamento come adesione ad innovativa mentalità, allora l’attesa sarà lunga, poiché non è probabilmente con un diverso modo di vestire che ci identificheremo. O perlomeno non ancora. Il cambiamento appare essere più intimo, non meramente estetico e soprattutto non con l’abbigliamento. Da tempo ormai la chirurgia estetica ha risolto in modo più radicale il problema di adeguamento a nuovi canoni e sempre di più le soluzioni saranno medicali e genetiche. La velocizzazione dovuta all’Intelligenza artificiale generativa, focalizzerà probabilmente nuovi percorsi estetici di cui forse l’abito sarà protagonista. Al momento il re è nudo. Alessandro Turci speaking